di Alberto Bortolotti
Nel calcio sono stati fondamentalmente i governi e i tifosi a dire no alla Superlega, ma nel golf direttamente gli atleti. E’ una bella storia che attiene alla tradizione e al rispetto dei colori e della sacralità di un mondo che ha le sue regole, sostanzialmente immutabili da qualche secolo.
Mentre i club di calcio (gli irriducibili come Juve, Real e Barca, e i pontieri rappresentati dalle due milanesi e dagli inglesi) sviluppavano un business tutto incentrato su una auspicabile esplosione dei diritti tv – finanziati, durante lo start up, da un maxiprestito di JP Morgan, il classico mutuo per comprare casa, pure bello tosto, 3 miliardi e mezzo di euro -, i golfisti più prestigiosi venivano contattati fin da 7 anni fa.
“CI provano da 7 anni – ha dichiarato al Guardian Rory Mc Ilroy, nordirlandese, attuale numero 2 del mondo -. E’ un tentativo di lusinga commerciale, al quale io sono decisamente contrario, anzi non capisco perché ci debba essere un favorevole. Io gioco a golf per “cementare” il mio posto nella storia di questo sport, il che significa vincere i tornei più importanti, che sono quelli tradizionali”.
La nascente Super Lega scatterebbe dall’autunno 2022 e per il primo anno avrebbe in calendario solo cinque gare. Ridotto il numero dei partecipanti: forse gli ingaggi così elevati hanno spinto a selezionare – in teoria, in pratica le adesioni non ci sono – solo sedici professionisti di primissimo livello. I prescelti verranno suddivisi in quattro gruppi con tanto di capitano. Ma nessuno dei contattati ha dato finora disponibilità, ancorché le offerte viaggino su cifre che si collocano tra i 20 e i 30 milioni di dollari annui.
Formalmente dietro la Super League Golf c’è The Raine Group, una banca newyorkese d’investimenti. I soldi però arrivano dall’altra parte del mondo: dietro le quinte dell’intera operazione ci dovrebbe essere Majed al-Sorour, chief executive di Golf Saudi, ente gestore del golf in Arabia Saudita.
Un po’ come la SuperLega calcistica, è un fiume carsico che periodicamente riemerge e che tra due o tre anni, scommettiamo, riapparirà.
L’ultima considerazione da fare è professionale. Eventi di questo tipo spingono redazioni a fare i servizi dalla tv e inviati a rarefarsi. C’é quindi, in nuce, un oggettivo depotenziamento della qualità giornalistica che parte dalle restrizioni legate al Covid e finisce nell’abolizione della presenza sui campi. Il che impedisce un racconto “vero” per un lettore o un ascoltatore attento. Un highlight è più che sufficiente, in teoria, mentre in pratica solo il racconto “de visu” fornisce dati tecnici e di “ambiente” che costituiscono la premessa indispensabile del nostro lavoro.