L’esempio delle comunicazioni dei media durante il Mondiale di calcio femminile del 2019
di Felice Accame*
* Docente di Teoria della comunicazione al Settore Tecnico della Federcalcio di Coverciano e coordinatore del Centro Studi e Ricerche del Settore Tecnico. E’ autore di numerosi saggi.
1.
Ad un dato momento, durante la telecronaca di Olanda-Italia nei recenti campionati del mondo di calcio femminile qualcuno ha detto: “Abbiamo un altro difensore ammonita”. Se le cose stanno così, mi son detto, se il nome maschile viene correlato ad un aggettivo femminile, vuol dire che “siamo ancora indietro”, che c’è ancora qualcosa che “non va”.
Nei giorni precedenti, infatti, in parecchi fra coloro che – nei media – hanno raccontato l’avventura della nazionale italiana a questi mondiali diciamo che non si sono distinti per sensibilità culturale ed eleganza di linguaggio. I problemi, da questo punto di vista, li suddividerei in tre tipologie. La prima è quella di un maschismo consapevole e quasi orgoglioso di esser tale, duro a morire nel nostro Paese – un maschismo che accetta l’asimmetria di genere come un dato di fatto “naturale” sul quale costruire e giustificare l’intera gamma delle relazioni possibili tra maschio e femmina. È così che, all’indomani della vittoria sulla Cina, abbiamo potuto leggere il titolo Le donne non tradiscono – come se, nel paradigma dei comportamenti femminili ci fosse di default una propensione al tradimento, e qui, per l’appunto, si rilevasse una differenza, la differenza che vale la notizia – e altri patetici tentativi di amenità irriguardosa.
La seconda è quella di un maschismo incorporato e fin quasi inconsapevolmente vissuto ma non per questo meno operante. Come allorquando, nel giudicare il comportamento del nostro portiere se ne sottolinea il colore degli occhi (“Laura dagli occhi blu”) – alzi la mano il giornalista sportivo che nel compilare la pagella di Cristiano Ronaldo o di Federico Chiesa ha messo in evidenza il colore dei loro occhi –, si parla di “un paio di gambe fresche” a proposito di un’atleta che torna a giocare dopo aver subito un’operazione chirurgica o si definisce “al bacio” un passaggio che prelude al gol. E anche quando si riduce il nome e il cognome di una nostra atleta alle sole iniziali del nome e del cognome – e quando queste vengono comode, perché si tratta di “BB” e di “BB” furoreggiante nell’immaginario maschile ce n’è già stata una –, penso che si stia in quest’ambito d’incertezza – fra la consapevolezza e la non consapevolezza. Nella sfera nozionale e semantica del femminile queste espressioni – queste soluzioni linguistiche – ci sono e, senza starci a pensar troppo, se ne approfitta.
La terza è quella che, comunque, come termine di riferimento – come paradigma – non sa rinunciare al calcio maschile. Come quando una nostra attaccante viene definita “pippoinzaghesca”. Il calcio è prima maschile e, pertanto, i modelli sono maschili. Prima che il calcio femminile si costruisca i propri modelli di storia ce ne vorrà ancora.
2.
A mio avviso, questo insieme di comunicazioni – nelle loro pur diverse gradazioni di scorrettezza – ritengo che si possa inquadrare nel più ampio dibattito sulla correttezza politica del linguaggio che si usa nei più diversi contesti – nella vita civile come in quelle scienze umane nel cui ambito, peraltro, il problema è sorto e, nonostante tutto, è ben lungi dall’essere risolto. Fior di antropologi, faccio un esempio, si sono scontrati sul problema del designare come Squaw la donna indiana d’America. Da ragazzino che leggeva i fumetti, nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, sognavo la mia squaw e la nominavo con tutta la tranquillità dell’innocente. Ora non potrei più, si dice. Sarebbe vero, infatti, che secondo alcuni antropologi la parola designasse la “giovane donna”, ma è anche vero che ben presto, nell’uso dei colonizzatori bianchi – i nuovi padroni del “loro” territorio –, la parola ha prima cominciato a designare la giovane donna “da poco” per finire a designare l’organo sessuale femminile. Gli sceneggiatori dei miei fumetti queste cose non le sapevano e traducevano alla buona, senza sottilizzare. E ora che si fa? Rimango in tema: nel 1748, John Cleland pubblica Fanny Hill. Memorie di una donna di piacere, che, da libro “pornografico” d’epoca gli procurerà un po’ di quattrini per tener buoni i tanti creditori; nei romanzi di Dickens, un secolo dopo, compare un personaggio di nome Pussy e io, nel 1965, vado a vedere un film – un film di Clive Donner con Ursula Andress, Peter Sellers e l’allora giovanissimo Woody Allen – che si intitola Ciao Pussycat. Potrei aggiungere che ho sempre stimato l’attrice francese Fanny Ardant. Bene, ma come me la cavo ora che entrambi i termini – fanny e pussy – hanno finito con il designare anche loro l’organo sessuale femminile? Non li uso più? O Fanny Ardant avrebbe dovuto cambiare nome? No, è evidente che il problema, posto in questi termini, non è più risolvibile.
3.
Proviamo ad affrontare la questione tenendo presente ciò che sappiamo in materia di comunicazioni umane. La prima cosa che abbiamo imparato – e ce lo ricordiamo spesso, ma soltanto quando ci è utile – è che il significato di ciò che ci diciamo è connesso a filo doppio ad un qui e ora. Ogni comunicazione vale nel suo contesto – estrapolata perde sempre qualcosa, a volte tanto (tanto da rendercene ambiguo il significato, quando, addirittura, non incomprensibile), a volte poco, ma qualcosa lo perde sempre. Chiedevo giorni fa ad un allievo di analizzare e commentare la fotografia di una stanza di un’abitazione sconosciuta e lui, giustamente, mi ha fatto notare che si trattava di un contesto “monco”, perché di quella stanza non si poteva sentire gli odori e neppure le diverse sonorità che potevano caratterizzarla in rapporto al posto in cui era situata.
Lo sa solo il parlante, per esempio, quando sta usando una metafora o no. Lo sa solo il parlante e il suo interlocutore se quel termine è usato in modo offensivo o no. Ma chi legge tempo dopo, chi, ammettiamo pure, sia in grado di ascoltare la registrazione di quanto detto, non ha più i mezzi per accertarsi del significato dell’interazione comunicativa: può scommetterci, può avviare tutta una serie di deduzioni da ciò che sa o presume di sapere sui protagonisti – può erigerci sopra un intero sistema ipotetico-deduttivo –, ma di certezze non ne può più avere.
L’analisi del linguaggio ha una scientificità – lo dico in termini puramente teorici, perché per conferire scientificità all’analisi di qualsiasi linguaggio occorre almeno poterlo riferire ad un modello dell’attività mentale e qui, ahinoi, sono dolori – se è eseguita in sincronia – in un ideale momento di contemporaneità. Ma se sono costretto ad eseguire un’analisi in diacronia – cioè, in una dimensione storica – accetto in linea di principio di perdermi qualcosa.
Il qui e ora non ritorna – o, almeno, non ritorna tale e quale. Ma, allora, non tornano neppure le condizioni per poter giudicare della correttezza o meno di un’espressione. Il senno di poi, a maggior ragione, può solo peggiorare le cose. Devo saper tenere distinto ciò che io so, oggi, da ciò che poteva sapere chi parlava, ieri. Come non posso ergermi a difensore di una morale con effetto retroattivo su chi mi ha preceduto – questa sì che, indubbiamente, è la manifestazione di una grave protervia. Sarebbe come se si giudicasse razzista chi, fino almeno alla metà del Novecento, scrivesse “negro” al posto di “nero” (o dell’ipocritissimo “di colore”) – o chi scriveva “handicappato” fino a pochi anni or sono in luogo di “diversamente abile” o, ancora, se si giudicasse male i genitori della Ardant per averla chiamata Fanny (che, peraltro, si chiama anche Marguerite e Judith, ma, guarda caso, ha scelto Fanny).
4.
Queste argomentazioni, beninteso, non possono assolvere nessuno. Chi è maschista – come chi prevarica, chi discrimina – lo sa e va condannato per l’asimmetria che, comunicando, conferma e ratifica in un mondo che di asimmetrie ne soffre già fin troppe. Tuttavia – in base a queste argomentazioni –, neppure si può condannare chi si rifiuta di far quadrare i conti della storia del linguaggio a colpi di regole. Il linguaggio è organismo anarchico per eccellenza. Soltanto nei romanzi utopici dove vengono descritte società buie ed oppressive, chi governa governa anche il linguaggio dei governati. Quando Mussolini decise per l’autarchia anche linguistica scoprì che “facchino” era un francesismo e, avvinghiato com’era ad un’ideologia di romanità, propose di sostituirlo con “pondifero” – che starebbe per “portatore di pesi” –, ma nessuno, arrivando in una stazione ferroviaria negli anni Trenta, lo chiamava davvero così. Certo, il linguaggio si trascina dietro la storia del mondo – e questa è una storia ben poco onorevole, storia di razzismi e di tante altre cose di cui poterci vergognare – ed è ovvio che questa storia abbia privilegiato il maschile a tutto danno del femminile, ma, in quanto tale, il linguaggio è innocente, perché proprio in quanto tale – in quanto è linguaggio – è l’espressione di un pensiero. Ecco dove andare a cercare la colpevolezza ed ecco dove, volendo, ma volendo davvero, queste colpe possono essere sanate.