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CALCIO E PSICOLOGIA: DA RE LEAR AI GIORNI NOSTRI di Felice Accame

CALCIO E PSICOLOGIA: DA RE LEAR AI GIORNI NOSTRI di Felice Accame

di Felice Accame *

* Docente di Teoria della comunicazione al Settore Tecnico della Federcalcio di Coverciano e coordinatore del Centro Studi e Ricerche del Settore Tecnico. E’ autore di numerosi saggi.
Da quando Shakespeare fa dire a Kent, nel Re Lear: “Tu, spregevole giocatore di foot-ball” (“You base foot-ball-player”) di acqua sotto i ponti ne è passata: in linea di massima, la professione di calciatore non è più considerata spregevole – per alcuni è addirittura diventata un miraggio.
Per il concorso di numerosi fattori sui quali ormai esiste un’ampia letteeratura, il calciatore ha finito con l’acquisire nell’attuale società uno statuto sociale di tutta rilevanza. Tanto rilevante da suscitare le curiosità dello psicologo. Molto prima di quanto tendiamo a ritenere oggi.
Uno dei primi psicologi a interrogarsi sul calcio è stato G. T. W. Patrick, che, in un saggio intitolato La psicologia del football e apparso sull’ American Jounal of Psychology (XIV, 3-4) già nel 1903,  ha sostenuto che i giochi in genere sono il residuo di antiche attività non ludiche e che, in particolare, il calcio è il gioco che ha mantenuto il “carattere più primitivo”. Come non riconoscere in questa tesi il nucleo di quella che, molti anni dopo – sul finire degli anni Settanta del secolo scorso – sarebbe diventata, grazie a Desmond Morris ed alla sua Tribù del calcio, la spiegazione del perché il gioco del calcio ha avuto tutto il successo che ha avuto?
Il caso di Patrick non è certo rimasto isolato. Più tardi, ampliando l’interesse scientifico ai diversi ruoli di giocatore ed ai processi percettivi attivati nel campo di gioco, al calcio si sono interessati lo psicologo inglese R. W. Pickford (1940), il tedesco H. G.  Hartgenbusch (1926) e il noto fenomenologo francese M. Merleau-Ponty (1942). Nel 1954, poi, Frederick Jacobus Johannes Buytendijk (1887-1974), psicologo e accademico pontificio, pubblica La psicologia del giocatore e dello spettatore, mettendo in evidenza tre caratteri fondamentali ai fini della straordinaria diffusione del gioco del calcio: a) la maschilità, b) la cerimonialità e c) la drammaticità.
La maschilità del gioco – a detta di Buytendijk – proviene dal calciare, dal fatto che è il piede l’elemento corporeo essenziale del gioco. Sferrare un calcio implica una perdita di equilibrio, implica un momento di rottura negli schemi corporei dell’umanità civilizzata, implica aggressività e, dunque – in una società tutta costruita sull’asimmetria tra poteri del maschio e poteri della femmina – “virilità”.
La cerimonialità è il carattere più evidente. L’attesa sugli spalti, l’entrata delle squadre in campo, la presenza di un arbitro per far rispettare le regole, le sanzioni e le modalità ordinate della loro applicazione, l’inizio e la fine del gioco e l’insieme dei riti ottemperati da tutti i protagonisti fanno del calcio, prima che uno spettacolo, una liturgia. Come tale diventa tradizione e, nella misura in cui viene conservata nei suoi costituenti fondamentali, assicura la continuità del suo successo.
Il carattere della drammaticità,  a mio avviso, va correlato alla struttura temporale della partita: due tempi di uguale durata che, in quanto tali, favoriscono l’alternarsi delle fasi di difesa e di attacco – verso l’ineluttabile conclusione che, perlopiù, implica la gioia degli uni e la disperazione degli altri. Il fatto che la partita, spesso, non sia decisiva – perché una partita, per esempio, può essere solo una stazione nel lungo percorso di un campionato – fa sì che tanti singoli drammi (“drama” in greco stava per l’”azione”) evolvano in una narrazione di maggior respiro – e non a caso l’insieme dei risultati di una squadra di calcio sono stati visti come un’”epopea”.
Tutta questa attenzione ormai annosa nei confronti del gioco del calcio potrebbe fungere da premessa all’espansione imperiale della psicologia nel gioco del calcio: come far sì che l’individuale si trasfonda nel collettivo affinché la prestazione migliori. Lo psicologo diventa la figura professionale coadiuvante l’allenatore – sia per l’assistenza al singolo atleta che per il controllo di quelle dinamiche all’interno della squadra che ne condizionano il rendimento. Tanto è vero che, negli anni, gli strumenti escogitati ai fini di diagnosi e ai fini di terapia, si sono fatti sempre più raffinati; l’analisi ha portato alla luce processi dapprima poco considerati o addirittura ignorati e, in prospettiva – con le nuove consapevolezze suscitate dagli sviluppi delle neuroscienze – si possono scorgere già i primi segnali di una prossima rivoluzione nelle metodiche di allenamento – una rivoluzione dove il mentale assumerà tutta la sua importanza.
In realtà, tuttavia, le cose sono andate diversamente. Voglio dire che tutta questa “presenza” dello psicologo a fianco dell’allenatore ed al servizio delle società di calcio non c’è ancora. A fronte di alcuni casi particolari, nella gran parte del calcio tutto quello sviluppo della psicologia che, da tempo, avremmo potuto aspettarci non c’è stato. Nonostante la precocità dei suoi interessi nei confronti del gioco del calcio, la psicologia è stata tenuta a bada – e, con poche sporadiche eccezioni, è tuttora impegnata a guadagnarsi un credito presso le istituzioni responsabili. C’è da chiedersene il perché.
In proposito, mi permetto di formulare un’ipotesi che si basa sull’analisi di entrambi i versanti. Da un lato, diciamo che la psicologia ha commesso i suoi errori. Innanzitutto, però, va rilevata la difficoltà del suo compito: formulare un modello credibile e condivisibile dell’attività mentale umana, indagare nel privato – nel “nascosto” per eccellenza, spesso fin nell’inconsapevolmente nascosto -, individuare il significato nei processi di comunicazione. E poi è anche corretto riconoscere che, a volte, le promesse sono state di gran lunga superiori ai risultati. A volte lo psicologo si è presentato come un “mago” risolutore quando un certo grado di “modestia” avrebbe creato minori attese – e minori delusioni. D’altronde, se qualche “venditore di fumo” lo possiamo trovare fin tra i biologi e i fisici – discipline molto più sperimentali e laboratoriali, discipline di maggior riscontro fattuale -, possiamo anche metterne in conto qualcuno alla psicologia.
Dall’altro lato resta la delicatezza della relazione da porre in atto. Non mi riferisco tanto a quella con il singolo atleta, quanto a quella con la squadra nel suo complesso – relazione che non può in alcun modo indebolire la relazione prioritaria, quella della squadra con il suo allenatore. Fermo restando che un allenatore capace non può essere geloso nei confronti di ruoli subalterni, chi studia la funzione di leadership all’interno dei gruppi umani dovrebbe ben sapere come comportarsi in frangenti dove ogni forma di concorrenza può risultare infausta per la salute collettiva.
E’ sull’altro versante – sul versante del calcio – che, comunque, a mio avviso, vanno individuati e risolti i problemi più ardui. E non si tratta soltanto di “ritardi” culturali – che pur, nella generalità dei casi, ci sono – ma di ragioni più profonde che ai ritardi culturali, per l’appunto, danno origine.
Il riferimento d’obbligo è al sistema produttivo che sta alla base del gioco così come è istituzionalizzato – alle modalità con cui vengono predisposti il ricambio generazionale e i processi di formazione del calciatore. I settori giovanili sono o trascurati o oggetto di investimenti di breve durata – alla consapevolezza della loro necessità – dico “necessità” – ed all’entusiasmo con cui, spesso, se ne affronta la realizzazione fanno riscontro improvvisi mutamenti di rotta. A volte è sufficiente che i risultati della prima squadra siano insoddisfacenti perché l’intera struttura dedicata all’istruzione ed all’addestramento dei giovani crolli. Troppo spesso il movimento calcistico nel suo complesso ha praticato la logica del “due passi avanti e tre indietro”, mentre tutti sappiamo che i risultati – i risultati che contano nei bilanci finanziari e morali – possono provenire soltanto dalla continuità.
Qualcosa del genere accade anche nei confronti della figura dell’allenatore in genere. A volte sono sufficienti pochi risultati negativi perché l’investimento nei suoi confronti perda di senso – e tutta una “programmazione” si riveli improvvisamente intercambiabile. Se a questa figura si desse l’importanza che merita – e che, psicologia alla mano, di fatto ha –, il suo lavoro verrebbe giudicato anche con altri criteri e protratto molto di più di quanto non usi.

E’ in quest’opera societaria e istituzionale collocata nel tempo che vengono ad essere selezionate persone e competenze – che emergono i “Maestri” e gli allenatori particolarmente versati nella didattica della tecnica. Ed è in quest’opera societaria e istituzionale che vengono ad essere selezionate anche quelle competenze – indispensabili per la crescita del singolo atleta come per la crescita della squadra – che possiamo annoverare sotto l’egida della psicologia.

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